La violenza economica è sicuramente da ritenersi tra le forme più subdole e diffuse di violenza, perché è difficile da stanare, tanto da meritarsi di essere definita violenza invisibile. Si tratta di un tipo di abuso che rende la vittima finanziariamente dipendente da chi lo esercita. Esercitare questo tipo di violenza su una donna significa controllare le sue risorse finanziarie, non coinvolgendola in nessuna scelta di spesa o investimento, negandole l’accesso al denaro o la partecipazione al mondo del lavoro, di fatto così limitandone grandemente la libertà. Per mantenere la capacità di reazione alla violenza domestica, l’indipendenza economica è fondamentale. Molte donne non interrompono relazioni prevaricanti perché non dispongono di sufficiente autonomia economica per provvedere a sé stesse e ai propri figli, e così la loro vulnerabilità si prolunga nel tempo.

Il fenomeno della violenza economica non è ben conosciuto e spesso viene piuttosto inquadrato come abuso psicologico, tuttavia un’analisi sull’utenza dei Centri Antiviolenza (CAV) permette un inquadramento della situazione.

Nel 2022, circa il 60% di queste donne non era autonoma economicamente, valore che corrisponde a più del 90% tra quelle in cerca di prima occupazione, a più dell’80% tra disoccupate, studentesse e casalinghe e al 45,4% di quelle che hanno un lavoro precario.

Nel complesso, il 74% delle donne presenta almeno una delle seguenti caratteristiche: non è autonoma economicamente, è arrivata al CAV con una richiesta di supporto all’autonomia, al lavoro o di natura economica, ha subito violenza economica o ha usufruito del servizio di supporto all’autonomia da parte del CAV.

Anche dai dati del 1522 emerge un quadro preoccupante: le violenze economiche sono segnalate dal 19,7% delle donne (2.854) che contattano questo numero. Subiscono di più violenza economica le casalinghe (41%), le lavoratrici in nero (32,9%) e le disoccupate (30,6%). Per le occupate è pari a 15,9%.

Le donne che presentano situazioni economiche svantaggiate subiscono più di frequente la violenza dai partner con cui vivono. In particolare, ciò si verifica per le disoccupate (53,7%), le casalinghe (79,5%) e le lavoratrici in nero (52,8%).

In un contesto in cui tutti dobbiamo concorrere uniti a formare quella massa critica che permetta lo scatto culturale che ci proponiamo, c’è un altro dato da considerare: nel nostro Paese l’occupazione femminile si attesta di poco sopra il 50%.

E questo è un dato tutt’altro che irrilevante, se la Banca d’Italia stima un incremento di 7 punti percentuali di PIL nell’ipotesi della piena occupazione di tutte le donne potenzialmente attive.

Il Global Gender Gap Index 2024, l’indice mondiale più longevo in materia di parità di genere, ha posizionato l’Italia all’87° posto su 146 economie, con un punteggio complessivo che la pone appena al di sotto della media europea, registrando un netto scivolamento negativo in classifica rispetto al 2023, quando il nostro Paese si attestava al 79° posto.

Se l’Italia mostra progressi in alcune aree come l’istruzione e la salute, per opportunità e partecipazione economica è al 111° posto, per diseguaglianza salariale ci collochiamo al 95° posto e per presenza femminile in posizioni di vertice il nostro Paese è al 102° posto.

Dati tutti questi elementi di contesto, le aziende possono, anzi, devono essere potenti motori di alimentazione per lo scatto culturale che il contrasto alla violenza di genere impone. Nella società, esse non sono infatti solo attori economici, ma, e questo è preliminare ad ogni valutazione sulla produttività, sono comunità di persone che, facendo propri i valori promossi in azienda, possono marcare un’impronta anche all’esterno.

Sul fronte delle relazioni industriali, la contrattazione collettiva ha preso negli anni ad occuparsi di un insieme sempre più ampio di tematiche, con la previsione di misure più o meno incisive per contrastare le violenze e le molestie di genere.

Il secondo livello di contrattazione dimostra un’attenzione ancora crescente, se si pensa che, tra i 434 contratti collettivi aziendali stipulati nel 2022, il 16% dei casi registra la previsione di almeno una misura ad hoc per lavoratrici vittime di violenza di genere, con condizioni di miglior favore rispetto alla disciplina nazionale. E’ stato introdotto, ad esempio, un periodo più esteso di astensione dal lavoro rispetto a quello già previsto dalla legge o dal contratto collettivo nazionale, oppure specifici regimi di flessibilità oraria.

In molti contesti aziendali stanno prendendo piede veri e propri servizi di supporto ad hoc, di assistenza e consulenza legale.

È sulla base di queste considerazioni che, nel contesto della recente firma delle linee guida 2024,  promosse dalla Consigliera di Parità Provinciale e finalizzate alla prevenzione di violenza e molestie anche sessuali nei luoghi di lavoro, APPIA CNA ha sostenuto l’inserimento di una proposta concreta, ossia aggiungere al questionario sullo stress lavoro-correlato domande specifiche sullo stress di genere.

Si tratta di uno strumento già previsto per legge (decreto 81/2008) che, nel caso specifico, può utilmente servire a fotografare la situazione aziendale rispetto alle politiche di genere.

Se diffusamente adottati e convintamente praticati, questi strumenti possono servire alle aziende per giocare un ruolo attivo nel cambiamento culturale, che si rende più che mai necessario e che può muovere dai singoli contesti aziendali per estendersi poi alla popolazione non lavorativa.

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